martedì 24 maggio 2016

MI È SEMBLATO DI VEDELE... UN DÉJÀ VU!



Sei a cena con i tuoi amici e stai chiacchierando in maniera tranquilla. Ad un certo punto Mario Rossi dice una frase: “Stamattina mentre andavo a lavoro ho incontrato Vattelappesca e…”  
Senti una sensazione strana, sembra che la scena che stava avendo luogo si sia fermata per un nanosecondo e poi sia ripartita. Tu questa scena l’hai già vissuta! Sei sicura che Mario Rossi abbia detto la stessa identica frase qualche giorno fa, o forse qualche anno fa, e indossava anche la stessa maglietta, ma come è possibile che l’abbia già detta se sta parlando di cosa è successo stamattina? O forse non era Mario Rossi? E forse non parlava di Vattelappesca. Fermi il flusso di coscienza durato qualche secondo e sentenzi: “Ragazzi ho avuto un déjà vu!”.

L’espressione déjà vu, è stata definita in maniera diversa da diversi autori a partire dal 1800, alcuni lo consideravano un disturbo della memoria, altri una paramnesia o un falso riconoscimento. Attualmente, la definizione che viene considerata come standard è quella del neuropsichiatra americano V.M. Neppe (1983), secondo il quale il déjà vu è ogni impressione soggettivamente inappropriata di familiarità tra un’esperienza presente e un passato indefinito.
In una review del 2003 a proposito del déjà vu, ( Brown, 2003) è riportato che sembra che la frequenza di questo fenomeno diminuisca con l’aumentare dell’età, che sia associato allo stress e alla stanchezza e che mostri una reazione positiva con il livello socioeconomico e la scolarità.
Dal momento in cui quello del déjà vu è un fenomeno frequente e affascinante, molte sono state le sue interpretazioni sia in ambito psicologico che in ambiti legati al sopranaturale. In questo articolo ci concentreremo soprattutto nella descrizione dei modelli cognitivi utilizzati per spiegare il déjà vu.
Queste spiegazioni scientifiche, secondo la review del 2003, possono essere suddivise in quattro categorie di riferimento all’interno delle quali possono essere organizzati i contributi di diversi autori: l’ipotesi del doppio processo, quella neurologica, quella della memoria e quella attenzionale.


  1. L’ipotesi del doppio processo assume che durante il déjà vu due processi cognitivi che normalmente operano in sincronia diventano momentaneamente asincroni o fuori fase.
  2. L’ipotesi neurologica suggerisce che il déjà vu rappresenti una breve disfunzione del sistema nervoso, che può essere dovuto o ad una “piccola epilessia” o all’alterazione nel normale decorso temporale della trasmissione neurale.
  3. L’ipotesi legata alla memoria assume che alcuni aspetti del setting attuale sono oggettivamente familiari, ma che la fonte dalla quale ha luogo la familiarità sia stata dimenticata
  4. Infine l’ipotesi attenzionale pone che il déjà vu avvenga quando ad una percezione iniziale alla quale si smette di prestare attenzione, segue una seconda percezione caratterizzata da attenzione piena.

Nella review si è spiegato che le ipotesi maggiormente prese in considerazione sono quella legata alla memoria e quella attenzionale. Questo perché quella del doppio processo è legata a profonde radici storiche, appartenenti al regno della filosofia più che a quello empirico, mentre quella neurologica era complessa da studiare con le tecnologie di quegli anni.
Fortunatamente, grazie allo sviluppo e al perfezionamento di nuove tecnologie, negli ultimi anni è più semplice osservare direttamente i processi cerebrali, attraverso complessi macchinari come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) o la tomografia ad emissione di positroni (PET). Nel 2014, sulla rivista Cortex, è stato pubblicato un articolo riguardo alle basi neuro-anatomiche del déjà vu esperito dalle persone sane, confrontate con quelle del déjà vu esperito da pazienti con epilessia medio-temporale durante un attacco, per cercare appunto di capire se esistano delle basi anatomo-fisiologiche comuni nella genesi del déjà vu. Nello studio sono stati confrontati, attraverso un’analisi effettuata con sofisticati strumenti, i cervelli di pazienti epilettici che esperiscono déjà vu con quelli di pazienti epilettici che non lo esperiscono e successivamente i cervelli di soggetti sani che lo esperiscono con quelli di soggetti sani che non lo esperiscono. E’ stato possibile osservare che i soggetti con epilessia che esperiscono dei déjà vu, rispetto ai pazienti che non li esperiscono, mostrano anomalie morfologiche nella regione medio-temporale sinistra, (che include il giro paraippocampale e l’ippocampo) e nella parte sinistra della corteccia visiva. Queste aree fanno parte dei network del riconoscimento visivo e della memorizzazione a lungo termine. La sensazione di déjà-vu, riportata dai pazienti durante un episodio epilettico, sarebbe quindi un sintomo organico di una memoria reale, che è però falsa.
Per quanto riguarda i soggetti sani, invece
le differenze morfologiche tra quelli che esperiscono il déjà vu con quelli che non lo esperiscono, sono più piccole e riguardano la corteccia insulare sinistra, che fa parte del sistema limbico, e gioca un ruolo importante nell’esperienza di stimoli emotigeni; l’insula ha infatti il compito di convogliare le informazioni sensoriali nel sistema limbico . Nei soggetti sani quindi il déjà vu rispecchierebbe quindi un fenomeno di alterata sensorialità dello stimolo percepito, più che un ricordo alterato.
Tale studio risulta interessante perché oltre a permetterci di osservare le differenze che intercorrono tra il cervello di soggetti sani che esperiscono déjà vu e quello dei soggetti sani che non lo esperiscono, ci mostra anche come il processo attraverso il quale il déjà vu si manifesta in pazienti epilettici risulti qualitativamente differente da quello tipico dei soggetti sani, nel primo caso il meccanismo riguarda una disfunzione mnestica, nel secondo una legata all’ elaborazione emotiva.
Concludiamo quindi utilizzando le parole di uno degli autori:
Noi pensiamo di aver già visto quel posto, ma in realtà è la sensazione che abbiamo provato nel vederlo che ci richiama uno stimolo mnestico precedentemente associato”.

BIBLIOGRAFIA: 
- Brown, Alan S. A review of the deja vu experience. Psychological bulletin129.3 (2003): 394.
- Labate, Angelo, et al. Neuro-anatomical differences among epileptic and non-epileptic déjà-vu. Cortex 64 (2015): 1-7.
- Neppe, Vernon M. The psychology of déjà vu: have I been here before? Witwatersrand Univ Pr, 1983.
 

lunedì 23 maggio 2016

EMOZIONI INCARNATE: UNO SGUARDO ALL’EMOZIONALITA’ “EMBODIMENT”.



Secondo Kleinginna & Kleinginna (1981) le emozioni possono definirsi come un complesso di interazioni tra fattori soggettivi e oggettivi mediati da sistemi neuronali/ormonali che può: a) suscitare esperienze affettive, b) generare processi cognitivi, c) attivare adattamenti fisiologici, d) condurre ad un comportamento.
Possiamo prendere questa definizione, tra le tante presenti sull’argomento, come un buon inizio per introdurci al problema in questione. Di fatto, da ciò che è stato appena menzionato, dobbiamo dedurne di avere un soggetto che, rapportandosi ad un mondo, risponde in modo “emozionato” a stimoli, contesti, che ne vanno a definire l’oggetto (ob-iectum), ciò a cui si rapporta.
I termini presenti nelle quattro varianti (suscitare, generare, attivare, condurre) implicano un’idea di passività da parte del soggetto il quale, trovandosi in una certa situazione, sarebbe come vincolato a dover render conto alla medesima, rispondendo in un determinato modo.
Allo stato attuale della ricerca e delle teorie sul tema, le cose non possono essere ridotte a quanto fin qui detto.
Va detto che le emozioni, lungi dall’essere un plus, una branca intorno alla psicologia, ne caratterizzano la dimensione essenziale. Come si potrebbe pensare un’esperienza psicologica, se non in maniera e-motiva (mossa-da)?
E’ vero, mi si dirà, ma come la si vuole mettere, ad esempio, con l’alessitimia?
Se ci si dovesse fermare al paradigma descritto all’inizio dell’articolo, la questione rimarrebbe difficile da risolvere. Se io sono soggetto esperiente un dato mondo, e ad un certo momento smetto di sentirlo, ne dovrebbe conseguire un’antitesi dell’esperienza. L’accadere rimarrebbe un quadro muto, che mi si appaleserebbe in immagini caotiche prive di qualsiasi senso.
Eppure, l’emozione è presente ancora nell’alessitimico, ed è constatabile nell’attivazione corporea, che è come se da sola risentisse quei significati perduti. In un’ottica Cartesiana, saremmo di fronte ad una sorta di magica disincarnazione, quasi come se l’anima (mente, psiche, coscienza, oggi se ne fa spesso un calderone unico) si staccasse da un corpo che, vivo e vegeto, continua ad attivarsi in relazione al suo mondo (una sorta di Golem del noto film degli anni ’20).
Se è vero che la maggior parte delle teorie delle emozioni attualmente studiate riconoscono la varietà e la complessità delle cause che porterebbero all’insorgenza di queste (si pensi agli esperimenti di Shacter e Singer che, sull’onda di una critica costruttiva alla teoria di Cannon, hanno posto al centro della questione la contestualizzazione delle emozioni), o ancora la varietà antropologica e influenzata culturalmente delle emozioni (si pensi a quanto viene riportato da Despret nel suo “Le emozioni: etnopsicologia dell’autenticità”) sono del parere che una svolta decisiva per “snocciolare” i punti più critici intorno alle emozioni sia stata data in particolare dalle teorie dell’embodiment (che vedono nei biologi cileni Humberto Maturana e Francisco Varela i suoi principali “iniziatori”) che  stanno aprendo nuove prospettive di studio che, ribaltando l’antica (e ontologicamente criticatissima) visione dualista dell’essere umano (beninteso: partendo da presupposti biologici!), permettono di concepire un soggetto che, lungi dal rispondere passivamente ad un mondo che lo vincola, mette in atto sì risposte comportamentali o cognitive, ma valide soltanto alla luce della sua esperienza che è soprattutto, ma direi primariamente ed evidentemente, corporea.
In realtà allo stato attuale molto si è detto e si sta dicendo intorno a riflessioni che superano, in termini di qualità si intende, le prime teorie a riguardo (che dovrebbero potersi far risalire agli anni ’80). Ad esempio, nelle più recenti riflessioni sul tema, il soggetto corporeo non può essere considerato come posteriore, in termini di esperienza, al proprio mondo, ma questo accade insieme a lui.
In parole povere: l’esperienza soggettiva non è un mio modo di vedere il mondo in termini riflessivi, bensì pre-riflessivi, immediati, centrati perciò sull’esperienza che è primariamente corporea e poi, magari, mentale, consapevole. E’ facile ritrovare qui, storicamente parlando, William James, il quale arrivando a conclusioni ben diverse, fu noto per aver riconosciuto un  ruolo centrale della visceralità corporea nell’esperienza emotiva (si veda inoltre da un punto di vista psicologico/psicoterapeutico ciò che viene riportato da Arciero, 2012; Arciero, Bondolfi, 2013; in psicopatologia da Fuchs e Schlimme, 2009; in psichiatria da Kendler e Parnas, 2015; e in filosofia dalle riflessioni di Merleau-Ponty e Heidegger).
L’alessitimico non è più, qui, colui che non è in grado di emozionarsi, ma colui che non riconosce più qualcosa che, tuttavia, esiste in quella pre-riflessività, la quale resta senza parole, incapace di esprimersi.
D’altro canto non è il linguaggio un insieme di segni e simboli per veicolare qualcosa che, altrimenti, rimarrebbe occultato?
Interessanti a riguardo sono le ricerche neuro scientifiche (Arciero; Bertolino, 2005) che mettono in evidenza come a differenti modalità di esperienza corporea (denominati come inward, se più centrati sulla visceralità, o outward, se più focalizzati sul contesto e meno sul corpo) corrispondano differenti attivazioni neurofisiologiche. I soggetti dello studio (preselezionati tra inward e outward), posti di fronte a sequenze di 3 volti che esprimevano paura, veniva chiesto loro di riconoscere tra i tre quelli identici. A livello di fMRI i risultati mostravano, coerentemente con le premesse, attivazioni preponderanti dell’amigdala, area cerebrale coinvolta nella percezione immediata, viscerale, di stimoli allarmanti; diversamente, per il gruppo outward, si è notata una maggior attivazione delle aree deputate al riconoscimento dei tratti fisiognomici e delle caratteristiche più propriamente “fredde” del volto (corteccia del giro fusiforme, corteccia occipitale associativa, corteccia prefrontale dorso laterale).

Vorrei concludere dicendo che, come spero sia chiaro in ogni articolo che scrivo, non vogliono essere esplicate delle verità ultime. La psicologia è una disciplina complessa che richiede sempre nuovi cominciamenti, per dirla con Husserl. L’argomento in questione è molto variegato e io stesso mi trovo a interrogarmi di fronte ad esso da relativamente poco tempo. D’altro canto, spero che tutto ciò possa servire da incipit per avvicinarsi al tema.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

- Arciero, G.; Bondolfi, G. – Sé, Identità e Stili di Personalità. Bollati Boringhieri, 2013
- Bertolino A., Arciero G., Rubino V., Latorre V., De Candia M., Mazzola V., Blasi G., Caforio G., Hariri A., Kolanchana B., Nardini M, Weinberger D.R., Scarabino T., Variation of human amygdala response during threatening stimuli as a function of 5’HTTLPR genotipe and personalità style, Biol. Psychiat., vol. 57, 1517-25; 2005.